Sconvolgimento e rabbia, indignazione e scoramento!
Ancora una volta, fin troppe queste volte, Siracusa è stata oltraggiata e vilipesa nella sua nobile essenza, le sue intime vesti sono state ulteriormente stracciate, il suo privilegio di essere patrimonio dell’Umanità è stato deriso dalla dabbenaggine e dal passivo pascolo in cui sono relegate le nostre urbane menti.
Il nostro accorato pensiero va al senso ”profetico” che si potrebbe oggi dare all’aggettivazione che ha nei secoli tipizzato ed incorniciato la meravigliosa immagine dell’Imperatore Federico II di Svevia, quella di “Stupor mundi” – Stupore del mondo -, in quanto proprio una sua avanguardistica, a dir poco eccelsa, opera di edificazione fortificata, il Castello Maniace di Siracusa, è proprio oggetto agli occhi di tutti di negativo, purtroppo, stupore.
Come non rimanere esterrefatti, con lo sguardo attonito, alla visione dello scempio, non evitato e quindi voluto, a cui questo maniero, invidiatoci dal mondo intero sin dall’alto Medioevo, è stato sottoposto.
Il triste manto dell’oblio è stato avvolto intorno a quello che doveva essere uno dei tanti motivi di orgoglio, dei numerosi punti di vanto della nostra città.
Come viandanti melensi, forse obnubilati dal troppo sole od intorpiditi da quell’umido vento di scirocco che segna ogni nostra azione, guardiamo solo passivamente l’inarrestabile agonia della monumentale opera e con passo tardo e lento continuiamo la nostra inoperosa marcia.
Cosa può determinare una siffatta insensibilità o per meglio dire una così irraggiungibile incoscienza?
La mancanza di fremito razionale o di vibrazione sentimentale possono essere ambedue addotti a due ordini di motivi, alla loro agenesia, congenita ed irreversibile, od alla loro deprivazione, acquisita ed ingravescente: non so obiettivamente a quale delle due categorie ascrivere la nostra siracusana akedìa, accidia, la nostra caratteristica ignavia che ci porrebbe a ragione nei gironi danteschi dell’inferno.
Qual destino per un castello che nei secoli ha viaggiato attraverso storie, talora velate da fosche ombre leggendarie, che ne hanno sublimato la grandezza, che ne hanno suggellato l’importanza non solo architettonica, ma anche storica. Sappiamo però che il destino dei “grandi” è talora contrassegnato da momenti di cedimento, spesso non endogeni, che a dispetto di tutti quegli eroi che Dostoevskij definirebbe quale “idiota”, impiegando il significato letterale del termine e non quello attribuitogli dall’autore, sono solo dei momenti e che la magnanimità di altri, questa volta, “grandi”, nel senso foscoliano del termine, può ridare vita nuova a tutte quelle cose che ancora non abbiamo capito non ci appartengono, perché non sono solo nostre, ma sono di tutto il mondo.
Ancora una volta, siamo certi, che la benignità del fato sarà di gran lunga superiore a tutte le insipienze siracusane, a tutte quelle “baruffe chiozzotte” che tanto ci ricordano Carlo Goldoni, o forse sarebbe meglio identificativo il titolo di “cialumie ri curtigghio”, scritto da un anonimo idealista di cui mi sfugge il nome, che descrivono, ahimé, il quotidiano aretuseo operare.
Il nostro appello alle menti sapienti è ora d’obbligo, urge che il lamento di chi riconosce in Siracusa la grandezza che le è propria diventi un coro collettivo, che le forze civili, come senso di appartenenza ad una civis – città -, possano debellare il malefico germe dell’indolenza che alberga stabilmente in chi, istituzionalmente preposto, preferisce il sonno della ragione.
Luigi Maiolino